Le
periferie di Fernando
(Riflessioni sulla periferia romana da Pasolini a Lakhous, vista o immaginata attraverso le pagine de "I treni di Fernando")
Fernando, il suo amico Marco
(e forse anch’io), non vivono una sola periferia, ma tante periferie
differenti. E ne “I treni di Fernando”,
laddove queste non possono essere mostrate,
o perché appartenenti ad un tempo diverso dal qui ed ora della narrazione o perché non riprese da un flashback (come
pure in certi casi avviene), sono evocate attraverso “sensazioni”: suoni, colori, profumi e atmosfere, ampiamente
riconoscibili (almeno nelle intenzioni dell’autore). Altre volte, invece, pur focalizzando
l’attenzione su ciò che nel qui ed ora
cade sotto gli occhi, una descrizione dettagliata, al limite del puntiglio, cerca
di mostrare la stratificazione e la contaminazione di passati, recenti e
remoti, urbanistici e umani, di queste diverse periferie (pag. 23). Perché tale
è la periferia, un insieme stratificato di architetture urbane, sociali e umane.
Ma quali sono quindi le
periferie di Fernando, del suo amico (e forse anche le mie)? In cosa sono
rimaste uguali a quelle attuali e in cosa sono diverse? Quali le promesse fatte
ai loro abitanti e quali le sfide che raccolgono e le nuove speranze?
Fernando, Marco (e di
certo anche io), oggi quarantenni, sono stati bambini nella periferia
pasoliniana degli anni ’50-‘60, in quella delle marane in cui l’americano faceva Tarzan, o meglio,
dato che l’età anagrafica non glielo avrebbe consentito, negli ultimi scampoli
di quella periferia che sopravviveva in larga parte ancora fino alla metà degli
anni ’70.
Era questa la periferia
delle bande delle Magliane, Magliane che stavano un po’ dappertutto:
al Quarticciolo, a Tor Sapienza, Torre Angela, Primavalle eccetera.Qui i bambini razzolavano su campi di calcio di grezzissima pozzolana, o semplicemente nei prati, con le ginocchia costantemente abrase; scorrazzavano per strade e per campi armati di mazzafionde (le più pregiate dotate di elastici a quadrelli, o altrimenti ricavati da vecchie camere d’aria), e di cerbottane: bande armare in perenne lotta.
Bambini cresciuti giù, “A ma’, io vado giù”, era il ritornello, e giù era la strada, la maestra,
la via, maestra di vita, o il cortile.
E giù ci si potevano stare senza che alle
mamme venisse l’ansia: la strada, il cortile, non erano mai una minaccia. E poi
su queste strade, in questi cortili, affacciavano finestre costantemente
spalancate. Le case, si può ben dire, non finivano con le mura perimetrali, le
finestre erano propaggini naturali delle case, erano gli occhi della mamma, che
riuscivano a vedere anche quello che sembrava impossibile da vedere.
Finestre dalle quali le
mamme, una per una, a turno, si
affacciavano e gridavano come ossessi per richiamare i propri figli per la
merenda o per la cena (pag. 65 e 70). Spesso poi non era necessario neanche il richiamo
delle mamme, era sufficiente che dalle finestre si diffondesse l’inconfondibile
ta-ta-ta-tatata ta-ta-ta-ta-ta-tataaaaaaaa…
la sigla del TG1 che, mesta, iniziava la ritirata.
Era una periferia
avventurosa, piena di poco e con una quantità di spazi a completa disposizione
di bambini e ragazzi. Non erano certo gli spazi organizzati, arredati e
attrezzati come i moderni parchi giochi, anzi, spesso ufficialmente vietati, ma ce n’erano dappertutto e promettevano
e mantenevano grandi avventure. Erano spazi disorganizzati,
nessuna mente adulta, cioè, si era spesa per renderli adatti ai più piccoli, e questo
favoriva una riorganizzazione (più mentale che fisica) secondo le esigenze, le
regole e le fantasie di questi ultimi. Paradossalmente si osserva che al
crescere dell’attenzione nei confronti dei bambini corrisponde una esponenziale
riduzione degli spazi (fisici e mentali) a loro disposizione.
Era una periferia terra di frontiera, «Tra la via Emilia e il West», provincia della grande città,
dove, per dire che si andava dall’attuale Anagnina (oggi conosciuta col nome
della fermata del Metrò, ma una volta Osteria del curato), a Cinecittà, meno di
3 Km in linea d’aria, si diceva vado a
Roma. Era quindi una periferia paesana,
in cui le relazioni erano di tipo paesano:
tutti conoscono tutti, le donne si tengono i figli a vicenda e si scambiano
favori, per le strade capita perfino di banchettare tutti assieme, l’estate,
mentre le bottiglie di pomodoro cuociono a bagnomaria in enormi fusti di latta.
E nei condomini? Beh, valeva
la regola che quando si cucinava un piatto speciale lo si portava in assaggio
ai vicini, e se ci si dimenticava di comperare qualcosa non c’era bisogno di ritornare
a bottega (ah, a proposito, a bottega
si segnava e si saldava a fine mese…
quando possibile).
Intanto Fernando e
Marco (anch’io) crescono, diventano ragazzi, cambiano, e anche ciò che gli è intorno
cambia: l’ambiente, la società.
Nelle borgate più
periferiche qualche strada comincia ad essere asfaltata: nuova e pessima
esperienza a caderci dalla bici o nelle entrate in scivolata sugli improvvisati campi di calcio; ottima soluzione per
far rullare i carioli costruiti con
le tavole e i cuscinetti a sfera, o per le campane
che le bambine disegnano col gessetto bianco. L’illuminazione pubblica
rischiara il buio e comincia ad arrivare qualche servizio.
Ormai la periferia è
operaia: operaie alla Autovox di Tor Sapienza, nel lanificio Gatti, operaie nelle
lavanderie semi industriali e in piccole e grandi aziende. Molti uomini
lavorano nell’edilizia, e qualcuno è messo perfino in regola.
La periferia è operaia
e matura una nuova coscienza, e dalla
consapevolezza alla solidarietà il passo è breve: i comitati di quartiere
rivendicano scuole, asili, l’ambulatorio della Mutua. I ragazzi sono ancora quasi tutti uguali, cioè hanno tutti
molto poco, quasi niente, qualcuno si esibisce nelle prime pinne col motorino truccato, ma si tratta di una minoranza. Gli
altri, la stragrande maggioranza, seduta sul muretto, sta a guardare e
nell’ozio di un vuoto che non c’era modo né premura di colmare, qualcuno
narrava incredibili leggende metropolitane ad una platea consapevolmente credulona.
Palazzine, palazzoni e interi
nuovi quartieri sorgono ovunque. Un palazzinarismo
selvaggio e aggressivo (pag. 24), insieme ad uno organizzato e a residui di un sano
abusivismo privato, scippa i prati ai giochi dei ragazzi. Le strade consolari
che fino a poco prima erano innocenti viuzze che Fernando attraversava senza pericolo
e che correvano affiancate dai binari dei tram che s’arrampicavano su per i
castelli (sì, proprio quello su cui Ingravallo sale per andare a Cecchina a
risolvere il pasticciaccio, quello
che la Magnani prende per portare la “bellissima”
figlioletta ai provini a Cinecittà), diventano stradoni che spartiscono un di qua e un di là prima inesistenti.
Tutto brulica di una frenetica attività e di nuovi cantieri, tuttavia c’è
ancora tanto spazio, e i quartieri nuovi e quelli vecchi si guardano con
diffidenza da una certa distanza.
Se perciò l’altra
periferia prometteva, mantenendo, di rappresentare un luogo tranquillo, libero,
un paese ad un passo dalla città, questa nuova periferia promette di
assomigliare molto di più a quella stessa città, anzi, di diventarlo di lì a
breve (e di fatti l’abbraccio urbano è quasi compiuto).
La fine degli anni ’70
e gli anni ’80 scorrono su questo binario (mentre i binari veri dei tram sono ormai
del tutto dismessi e la gomma sgomita
sempre di più per inventarsi uno spazio che non c’è tra le stradine inadeguate)
e l’urbanizzazione contagia e
trasforma anche gli abitanti della nuova periferia. Le fabbriche dell’interland
cittadino sono ormai quasi tutte in crisi e gli impiegati prendono il posto
degli operai. C’è più ricchezza e ora i ragazzi sono quasi tutti uguali: tutti debbono (volenti o nolenti) avere tutto.
È indubbio che ormai i
prati e gli spazi aperti e abbandonati sono quasi spariti del tutto, ma è pur
vero che i giovani non hanno più l’urgenza di frequentarli: girano in motorino,
sfoggiano bomberini all’ultima moda e
si ritrovano in locali al chiuso (birrerie e paninoteche invadono anche la
periferia).
E i bambini? Ah, beh,
loro sono merce sempre più rara e preziosa e le mamme non si fidano più ad
affidarli alla strada o al cortile (pag. 34). È dagli anni di piombo che
ciascuno ha imparato a chiudersi in casa propria e anche i vicini sono spesso
degli sconosciuti.
Ora che Fernando è
quasi un trent’enne, se come Marco non avesse sofferto del suo ritardo
cognitivo, di come andava cambiando il suo vecchio quartiere probabilmente non si
sarebbe neppure accorto. Con gli amici, con la fidanzata, con la macchina,
avrebbe scorrazzato per l’intera città, dimentico degli scorci con la ferrovia
che lo avevano visto crescere, ignaro del fatto che i negozi del suo quartiere aprivano,
chiudevano e cambiavano gestione come su una giostra. Non si sarebbe accorto
che ormai i lampioni illuminano ogni via, che anche lì si può comprare di
tutto, che ora c’era la farmacia, il negozio per il noleggio delle
videocassette, e proprio dove si stagliava l’imponente vuoto della buca è spuntato un centro commerciale, e
che tuttavia il negozio dei fratelli Rocchetti sopravvive ancora, ma che è
diventato più caro di un oreficeria e si paga solo in contanti. Si sarebbe però
accorto, accompagnandosi con un rosario di imprecazioni, che rincasando a notte
fonda non era più possibile parcheggiare.
Se fosse stato sano come Marco, proprio come lui,
andrebbe cercando un appartamento, per accasarsi, e lo cercherebbe proprio lì, in zona, e solo se non gli fosse stato
possibile, magari per motivi economici, sarebbe partito a colonizzare un’altra
nuova, lontana, periferia (Mentana, Tor Lupara, Guidonia, Pomezia, Marina di
San Nicola ecc., ecc.).
Ma purtroppo Fernando
non è come Marco e a lui tocca restare lì (pag. 34), in quel posto, insieme a
Peppe, il portiere, ad osservare, con l’occhio attento di chi riesce a vedere
oltre le apparenze tutte le mutazioni, anche quelle più impercettibili, del suo
quartiere (che ormai storce il naso a sentirsi appellare periferia).
E allora non gli
sfugge il nuovissimo negozio “Ultimate Nutrition Power
Sport Food”, non gli sfugge l’operaio dell’est che tracanna birra
nel “Bar degli Amici” (pag. 11), e
gli stranieri di tutte le nazionalità che la domenica mattina, mentre con la
sua famiglia va a messa, incrocia sui marciapiedi (pag. 54). Non gli sfugge l’insolente
prepotenza del bimbo dal caschetto d’oro (pag. 34). E soprattutto non gli
sfugge (e coglie) la possibilità dell’amore, Teresa, che è il regalo
dell’ultima “periferia di Fernando”. Una periferia capace di mettere insieme ognicosa:
Teresa e il Senatore Orfanelli; Teresa e il suo essere maschio e femmina a un
tempo.
In Fernando, grazie alla sua non
necessità di rincorrere il presente, per quella sensibilità che sta a lui
come l’udito a un non vedente, queste periferie sono tutte presenti nello
stesso istante, pronte a materializzarsi in ogni momento rievocate da un
niente: il primo raggio di sole d’inizio estate (pag. 8), un tintinnio di
stoviglie (pag. 65) ecc., ecc..
Per Fernando quindi le diverse periferie sono tutte lì e tutte presenti nello
stesso momento, ma per tutti gli altri, per noi che siamo costretti ad attualizzarci e a confrontarci col
presente, cosa promettono queste periferie?
Il fenomeno dell’immigrazione straniera (quella nostrana le periferie
romane l’hanno conosciuta e la conoscono fin troppo bene) è certamente il fatto
più rilevante degli ultimi 10/15 anni.
Polarizzazioni etniche o semplice e totale commistione di razze
caratterizzano le diverse zone della città e delle periferie (quelle più
prossime e quelle più remote – ormai provincia), frutto di complesse dinamiche.
Su tutto però, vale la regola che la periferia offre, a parità di costi,
possibilità e disponibilità di alloggio maggiori e migliori che il centro. Di
certo quando l’immigrazione è di tipo familiare, come avviene più spesso per le
popolazioni dell’est Europa, la tendenza è quella a ricercare una sistemazione
più confortevole e stabile, tendenza che porta (esattamente come avviene per i
nostri giovani che intendono metter-su-famiglia)
a spingersi nelle estreme periferie. Una sistemazione che tuttavia si concilia abbastanza
bene con le attività tipiche di queste fasce di popolazione: gli uomini nell’edilizia,
domestiche e badanti, le donne.
Quando l’immigrato invece è uno uomo solo, il cosiddetto marocchino ad esempio (marocchino è chiunque
abbia un banchetto in strada, che provenga dal nord Africa o dal Bangladesh),
probabilmente abita una zona più centrale, dove condivide un misero posto letto
con dozzine di compagni d’avventura.
Nell’uno o nell’altro caso, questi uomini e donne, e i loro ragazzi, non rappresentano
però soltanto una novità per le
popolazioni delle periferie, ma sono le popolazioni stesse delle nuove periferie.
Le nuove periferie, le periferie dell’oggi
giorno, in un mondo globalizzato e piatto, non possono mostrare più quelle
grandi fratture con la città degli anni della fanciullezza di Fernando: la
mobilità (o più correttamente immobilità) è ormai generalizzata, l’accesso ai
servizi comparabile, l’accesso alle tecnologie, i nuovi veri asset infrastrutturali, sostanzialmente
identico. Quale è allora la promessa, o la sfida, che questi territori ci
lanciano oggi?
La sfida, che a partire dalle micro
realtà periferiche può e deve essere esportata ai massimi sistemi, sta proprio
in quello che molti indicano come il “vero” problema delle periferie, ossia i
suoi nuovi abitanti, gli immigrati.
La sfida è quella di trasformare la potenziale minaccia in concreta opportunità.
Ma come farlo?
Intanto partendo da una convivenza libera dai preconcetti, così come è non
ha preconcetti l’amore tra Fernando e Teresa: differenti nelle differenze e
indissolubili (tanto che già dopo il loro primo incontro sembra impossibile
pensarli separati – pag 166). Convivenza anche più dell’integrazione (che
sembra intrinsecamente contaminata dal virus
della disparità). Commistione e contaminazione, di culture, di esperienze,
identità. Caos: principio generatore di nuove organizzazioni.
Convivenza, commistione, contaminazione, confusione, caos, necessità: le nuove
vie. Strade nuove che le nostre, vecchie, società occidentali, sempre meno
capaci di attrarre e sempre meno propulsive, non riescono a tracciare da sole.
La sfida, perciò, è il coraggio di guardare il prossimo negli occhi, la
promessa è la quella di poterlo abbracciare.
Augusto Monachesi