mercoledì 11 giugno 2014


Le periferie di Fernando
(Riflessioni sulla periferia romana da Pasolini a Lakhous, vista o immaginata attraverso le pagine de "I treni di Fernando")

Fernando, il suo amico Marco (e forse anch’io), non vivono una sola periferia, ma tante periferie differenti. E ne “I treni di Fernando”, laddove queste non possono essere mostrate, o perché appartenenti ad un tempo diverso dal qui ed ora della narrazione o perché non riprese da un flashback (come pure in certi casi avviene), sono evocate attraverso “sensazioni”: suoni, colori, profumi e atmosfere, ampiamente riconoscibili (almeno nelle intenzioni dell’autore). Altre volte, invece, pur focalizzando l’attenzione su ciò che nel qui ed ora cade sotto gli occhi, una descrizione dettagliata, al limite del puntiglio, cerca di mostrare la stratificazione e la contaminazione di passati, recenti e remoti, urbanistici e umani, di queste diverse periferie (pag. 23). Perché tale è la periferia, un insieme stratificato di architetture urbane, sociali e umane.
Ma quali sono quindi le periferie di Fernando, del suo amico (e forse anche le mie)? In cosa sono rimaste uguali a quelle attuali e in cosa sono diverse? Quali le promesse fatte ai loro abitanti e quali le sfide che raccolgono e le nuove speranze?

Fernando, Marco (e di certo anche io), oggi quarantenni, sono stati bambini nella periferia pasoliniana degli anni ’50-‘60, in quella delle marane in cui l’americano faceva Tarzan, o meglio, dato che l’età anagrafica non glielo avrebbe consentito, negli ultimi scampoli di quella periferia che sopravviveva in larga parte ancora fino alla metà degli anni ’70.
Era questa la periferia delle bande delle Magliane, Magliane che stavano un po’ dappertutto: al Quarticciolo, a Tor Sapienza, Torre Angela, Primavalle eccetera.

Qui i bambini razzolavano su campi di calcio di grezzissima pozzolana, o semplicemente nei prati, con le ginocchia costantemente abrase; scorrazzavano per strade e per campi armati di mazzafionde (le più pregiate dotate di elastici a quadrelli, o altrimenti ricavati da vecchie camere d’aria), e di cerbottane: bande armare in perenne lotta.

Bambini cresciuti giù, “A ma’, io vado giù”, era il ritornello, e giù era la strada, la maestra, la via, maestra di vita, o il cortile. E giù ci si potevano stare senza che alle mamme venisse l’ansia: la strada, il cortile, non erano mai una minaccia. E poi su queste strade, in questi cortili, affacciavano finestre costantemente spalancate. Le case, si può ben dire, non finivano con le mura perimetrali, le finestre erano propaggini naturali delle case, erano gli occhi della mamma, che riuscivano a vedere anche quello che sembrava impossibile da vedere.
Finestre dalle quali le mamme, una per una, a  turno, si affacciavano e gridavano come ossessi per richiamare i propri figli per la merenda o per la cena (pag. 65 e 70). Spesso poi non era necessario neanche il richiamo delle mamme, era sufficiente che dalle finestre si diffondesse l’inconfondibile ta-ta-ta-tatata ta-ta-ta-ta-ta-tataaaaaaaa… la sigla del TG1 che, mesta, iniziava la ritirata.

Era una periferia avventurosa, piena di poco e con una quantità di spazi a completa disposizione di bambini e ragazzi. Non erano certo gli spazi organizzati, arredati e attrezzati come i moderni parchi giochi, anzi, spesso ufficialmente vietati, ma ce n’erano dappertutto e promettevano e mantenevano grandi avventure. Erano spazi disorganizzati, nessuna mente adulta, cioè, si era spesa per renderli adatti ai più piccoli, e questo favoriva una riorganizzazione (più mentale che fisica) secondo le esigenze, le regole e le fantasie di questi ultimi. Paradossalmente si osserva che al crescere dell’attenzione nei confronti dei bambini corrisponde una esponenziale riduzione degli spazi (fisici e mentali) a loro disposizione.
Era una periferia terra di frontiera, «Tra la via Emilia e il West», provincia della grande città, dove, per dire che si andava dall’attuale Anagnina (oggi conosciuta col nome della fermata del Metrò, ma una volta Osteria del curato), a Cinecittà, meno di 3 Km in linea d’aria, si diceva vado a Roma. Era quindi una periferia paesana, in cui le relazioni erano di tipo paesano: tutti conoscono tutti, le donne si tengono i figli a vicenda e si scambiano favori, per le strade capita perfino di banchettare tutti assieme, l’estate, mentre le bottiglie di pomodoro cuociono a bagnomaria in enormi fusti di latta.

E nei condomini? Beh, valeva la regola che quando si cucinava un piatto speciale lo si portava in assaggio ai vicini, e se ci si dimenticava di comperare qualcosa non c’era bisogno di ritornare a bottega (ah, a proposito, a bottega si segnava e si saldava a fine mese… quando possibile).
Intanto Fernando e Marco (anch’io) crescono, diventano ragazzi, cambiano, e anche ciò che gli è intorno cambia: l’ambiente, la società.

Nelle borgate più periferiche qualche strada comincia ad essere asfaltata: nuova e pessima esperienza a caderci dalla bici o nelle entrate in scivolata sugli improvvisati campi di calcio; ottima soluzione per far rullare i carioli costruiti con le tavole e i cuscinetti a sfera, o per le campane che le bambine disegnano col gessetto bianco. L’illuminazione pubblica rischiara il buio e comincia ad arrivare qualche servizio.
Ormai la periferia è operaia: operaie alla Autovox di Tor Sapienza, nel lanificio Gatti, operaie nelle lavanderie semi industriali e in piccole e grandi aziende. Molti uomini lavorano nell’edilizia, e qualcuno è messo perfino in regola.

La periferia è operaia e matura una nuova coscienza, e dalla consapevolezza alla solidarietà il passo è breve: i comitati di quartiere rivendicano scuole, asili, l’ambulatorio della Mutua. I ragazzi sono ancora quasi tutti uguali, cioè hanno tutti molto poco, quasi niente, qualcuno si esibisce nelle prime pinne col motorino truccato, ma si tratta di una minoranza. Gli altri, la stragrande maggioranza, seduta sul muretto, sta a guardare e nell’ozio di un vuoto che non c’era modo né premura di colmare, qualcuno narrava incredibili leggende metropolitane ad una platea consapevolmente credulona.
Palazzine, palazzoni e interi nuovi quartieri sorgono ovunque. Un palazzinarismo selvaggio e aggressivo (pag. 24), insieme ad uno organizzato e a residui di un sano abusivismo privato, scippa i prati ai giochi dei ragazzi. Le strade consolari che fino a poco prima erano innocenti viuzze che Fernando attraversava senza pericolo e che correvano affiancate dai binari dei tram che s’arrampicavano su per i castelli (sì, proprio quello su cui Ingravallo sale per andare a Cecchina a risolvere il pasticciaccio, quello che la Magnani prende per portare la “bellissima” figlioletta ai provini a Cinecittà), diventano stradoni che spartiscono un di qua e un di là prima inesistenti. Tutto brulica di una frenetica attività e di nuovi cantieri, tuttavia c’è ancora tanto spazio, e i quartieri nuovi e quelli vecchi si guardano con diffidenza da una certa distanza.

Se perciò l’altra periferia prometteva, mantenendo, di rappresentare un luogo tranquillo, libero, un paese ad un passo dalla città, questa nuova periferia promette di assomigliare molto di più a quella stessa città, anzi, di diventarlo di lì a breve (e di fatti l’abbraccio urbano è quasi compiuto).
La fine degli anni ’70 e gli anni ’80 scorrono su questo binario (mentre i binari veri dei tram sono ormai del tutto dismessi e la gomma sgomita sempre di più per inventarsi uno spazio che non c’è tra le stradine inadeguate) e l’urbanizzazione contagia e trasforma anche gli abitanti della nuova periferia. Le fabbriche dell’interland cittadino sono ormai quasi tutte in crisi e gli impiegati prendono il posto degli operai. C’è più ricchezza e ora i ragazzi sono quasi tutti uguali: tutti debbono (volenti o nolenti) avere tutto.
È indubbio che ormai i prati e gli spazi aperti e abbandonati sono quasi spariti del tutto, ma è pur vero che i giovani non hanno più l’urgenza di frequentarli: girano in motorino, sfoggiano bomberini all’ultima moda e si ritrovano in locali al chiuso (birrerie e paninoteche invadono anche la periferia).
E i bambini? Ah, beh, loro sono merce sempre più rara e preziosa e le mamme non si fidano più ad affidarli alla strada o al cortile (pag. 34). È dagli anni di piombo che ciascuno ha imparato a chiudersi in casa propria e anche i vicini sono spesso degli sconosciuti.

Ora che Fernando è quasi un trent’enne, se come Marco non avesse sofferto del suo ritardo cognitivo, di come andava cambiando il suo vecchio quartiere probabilmente non si sarebbe neppure accorto. Con gli amici, con la fidanzata, con la macchina, avrebbe scorrazzato per l’intera città, dimentico degli scorci con la ferrovia che lo avevano visto crescere, ignaro del fatto che i negozi del suo quartiere aprivano, chiudevano e cambiavano gestione come su una giostra. Non si sarebbe accorto che ormai i lampioni illuminano ogni via, che anche lì si può comprare di tutto, che ora c’era la farmacia, il negozio per il noleggio delle videocassette, e proprio dove si stagliava l’imponente vuoto della buca è spuntato un centro commerciale, e che tuttavia il negozio dei fratelli Rocchetti sopravvive ancora, ma che è diventato più caro di un oreficeria e si paga solo in contanti. Si sarebbe però accorto, accompagnandosi con un rosario di imprecazioni, che rincasando a notte fonda non era più possibile parcheggiare.
Se fosse stato sano come Marco, proprio come lui, andrebbe cercando un appartamento, per accasarsi, e lo cercherebbe proprio lì, in zona, e solo se non gli fosse stato possibile, magari per motivi economici, sarebbe partito a colonizzare un’altra nuova, lontana, periferia (Mentana, Tor Lupara, Guidonia, Pomezia, Marina di San Nicola ecc., ecc.).

Ma purtroppo Fernando non è come Marco e a lui tocca restare lì (pag. 34), in quel posto, insieme a Peppe, il portiere, ad osservare, con l’occhio attento di chi riesce a vedere oltre le apparenze tutte le mutazioni, anche quelle più impercettibili, del suo quartiere (che ormai storce il naso a sentirsi appellare periferia).
E allora non gli sfugge il nuovissimo negozio Ultimate Nutrition Power Sport Food”, non gli sfugge l’operaio dell’est che tracanna birra nel “Bar degli Amici” (pag. 11), e gli stranieri di tutte le nazionalità che la domenica mattina, mentre con la sua famiglia va a messa, incrocia sui marciapiedi (pag. 54). Non gli sfugge l’insolente prepotenza del bimbo dal caschetto d’oro (pag. 34). E soprattutto non gli sfugge (e coglie) la possibilità dell’amore, Teresa, che è il regalo dell’ultima “periferia di Fernando”. Una periferia capace di mettere insieme ognicosa: Teresa e il Senatore Orfanelli; Teresa e il suo essere maschio e femmina a un tempo. 

In Fernando, grazie alla sua non necessità di rincorrere il presente, per quella sensibilità che sta a lui come l’udito a un non vedente, queste periferie sono tutte presenti nello stesso istante, pronte a materializzarsi in ogni momento rievocate da un niente: il primo raggio di sole d’inizio estate (pag. 8), un tintinnio di stoviglie (pag. 65) ecc., ecc..
Per Fernando quindi le diverse periferie sono tutte lì e tutte presenti nello stesso momento, ma per tutti gli altri, per noi che siamo costretti ad attualizzarci e a confrontarci col presente, cosa promettono queste periferie?

Il fenomeno dell’immigrazione straniera (quella nostrana le periferie romane l’hanno conosciuta e la conoscono fin troppo bene) è certamente il fatto più rilevante degli ultimi 10/15 anni.
Polarizzazioni etniche o semplice e totale commistione di razze caratterizzano le diverse zone della città e delle periferie (quelle più prossime e quelle più remote – ormai provincia), frutto di complesse dinamiche. Su tutto però, vale la regola che la periferia offre, a parità di costi, possibilità e disponibilità di alloggio maggiori e migliori che il centro. Di certo quando l’immigrazione è di tipo familiare, come avviene più spesso per le popolazioni dell’est Europa, la tendenza è quella a ricercare una sistemazione più confortevole e stabile, tendenza che porta (esattamente come avviene per i nostri giovani che intendono metter-su-famiglia) a spingersi nelle estreme periferie. Una sistemazione che tuttavia si concilia abbastanza bene con le attività tipiche di queste fasce di popolazione: gli uomini nell’edilizia, domestiche e badanti, le donne.

Quando l’immigrato invece è uno uomo solo, il cosiddetto marocchino ad esempio (marocchino è chiunque abbia un banchetto in strada, che provenga dal nord Africa o dal Bangladesh), probabilmente abita una zona più centrale, dove condivide un misero posto letto con dozzine di compagni d’avventura.
Nell’uno o nell’altro caso, questi uomini e donne, e i loro ragazzi, non rappresentano però soltanto una novità per le popolazioni delle periferie, ma sono le popolazioni stesse delle nuove periferie.

Le nuove periferie, le periferie dell’oggi giorno, in un mondo globalizzato e piatto, non possono mostrare più quelle grandi fratture con la città degli anni della fanciullezza di Fernando: la mobilità (o più correttamente immobilità) è ormai generalizzata, l’accesso ai servizi comparabile, l’accesso alle tecnologie, i nuovi veri asset infrastrutturali, sostanzialmente identico. Quale è allora la promessa, o la sfida, che questi territori ci lanciano oggi?
La sfida, che a partire dalle  micro realtà periferiche può e deve essere esportata ai massimi sistemi, sta proprio in quello che molti indicano come il “vero” problema delle periferie, ossia i suoi nuovi abitanti, gli immigrati.

La sfida è quella di trasformare la potenziale minaccia in concreta opportunità. Ma come farlo?
Intanto partendo da una convivenza libera dai preconcetti, così come è non ha preconcetti l’amore tra Fernando e Teresa: differenti nelle differenze e indissolubili (tanto che già dopo il loro primo incontro sembra impossibile pensarli separati – pag 166). Convivenza anche più dell’integrazione (che sembra intrinsecamente contaminata dal virus della disparità). Commistione e contaminazione, di culture, di esperienze, identità. Caos: principio generatore di nuove organizzazioni.

Convivenza, commistione, contaminazione, confusione, caos, necessità: le nuove vie. Strade nuove che le nostre, vecchie, società occidentali, sempre meno capaci di attrarre e sempre meno propulsive, non riescono a tracciare da sole.
La sfida, perciò, è il coraggio di guardare il prossimo negli occhi, la promessa è la quella di poterlo abbracciare.

Augusto Monachesi

domenica 15 dicembre 2013

Chi è Tatiana?


Sei davvero convinto di essere padrone della tua identità? Fai il Test con Tatiana.
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Senza aprire gli occhi, tirò un colpo allo snooze della Sony che, accidenti a lei, d’improvviso aveva preso a urlare “Loacker, che bontà!”.
Sfilarsi dal caldo piumone Ikea le sembrò impossibile, ma, fatalmente, due minuti dopo, era già sotto la doccia, coccolata dal sentore archetipico del bagnoschiuma Roberts che le ricordava la sua infanzia, tutta tappata nel piccolo ambiente tropicalizzato dal Caldobagno alla massima potenza.
Strascinando gli scafandri di gomma piuma col faccione di un Pippo assonnato, raggiunse la macchinetta del Nespresso, un lusso e una necessità alla quale non aveva voluto rinunciare. Inserì la cialda. Quel caffè, l’unico che beveva, e 2 Grancereale erano la sua misera colazione, ma la tirava sempre un po’ per le lunghe, per concedersi il tempo di consultare l’iPhone e di connettersi al mondo: oroscopo Virgo, Facebook, il meteo.it, Repubblica online.
Già un po’ più sveglia, celebrò il breve rito della vestizione. Nella cameretta piena di specchi, – l’aveva voluta proprio così – gettò un colpo d’occhio alla figura intera, poi, con una zoomata da C.S.I. sul sedere, controllò l’effetto leggins + mutanda: perché non si ripetesse la disgrazia del giorno prima, quando solo a tarda sera si accorse dell’assoluto antiestetismo del pantacollant Tezenis sopra la mutanda Intimissimi. E pensare che ci aveva speso un patrimonio per quelle mutande. “Mai più Intimissimi!”, questo era certo.
Sul marciapiede l’aspettava da sempre l’SH 50 dell’ottanta: due tempi, euro sotto zero, ma fedele come l’Arma dei Carabinieri. Lo inforcò e dopo 10 minuti già indossava il camice rosso e verde della Esselunga e, seduta alla cassa, sparava codici a barre.
Sparò Regina, Friskies e Lete. Sparò a 12 polli Amadori, in offerta speciale. Sparò a Nonno Nanni, a Capitan Findus, a Giovanni Rana. E, a un certo punto, ebbe anche la tentazione di sparare a una giovane mamma che, per il suo bambino, aveva tirato via dagli scaffali l’intera linea 4 Salti, Sofficini e Panatine.
Sparò per 6 ore di fila, in mezzo solo pochi minuti per un George Clooney …hops, un Nespresso, e due Pocket coffee, con George Clooney insidehops, col caffè dentro. E quando infine tolse il camice era già scuro.
L’SH stentò un pochino: tutte quelle ore fermo al freddo. Ma poi fece il suo dovere e l’accompagnò all’Harry’s bar, dove l’aspettava Chiara per uno Spritz. Bevvero e sgranocchiarono Cipster, Ritz e qualche tartina, poi Chiara, guardando il viso smunto dell’amica, le diede del Mocio Vileda, lei sorrise e le diede semplicemente della stronza.
Guardò fuori dal locale e visto che era già buio pesto decise di chiudere lì la sua giornata. Perciò accelerò con le tartine e con l’Aperol Spritz: doveva evitare di cucinarsi, altrimenti, lo sapeva, sarebbe finita come la giovane mamma, suicidata dentro un Bon roll, vegliata dalla sua solitudine e dai Pacchi.
Salutò Chiara, calcò il Momo d’annata sulla testa, e già sentiva l’acqua calda della doccia scrosciarle addosso. La doccia serale doveva essere più morbida di quella del mattino, per questo scelse un cremoso Dove, mentre il Caldobagno poteva starsene a riposo, che a quell’ora l’impianto centralizzato faceva gli appartamenti incandescenti.
Uscita dalla doccia, passò e ripassò nuda davanti agli specchi della cameretta, cogliendo istantanee del suo corpo. D’improvviso, dentro uno di quegli scatti, si percepì estranea a se stessa, così si bloccò e partorì una domanda: chi è Tatiana? Stette un po’, poi riprese a rovistare nella cassettiera Hmnes senza darsi una risposta.
Frugò e trovò lo slip con la targhetta rossa che cercava e, messe su le mutandine, si colse di nuovo riflessa di schiena nello specchio. Era dritta in piedi, i capelli raccolti in una lunga coda inseguiva il filo della spina dorsale bloccandosi, però, giusto in tempo per non sporcare la sagoma dei fianchi. La poca stoffa dello slip si era disposta esattamente come qualcuno aveva progettato. Allora indugiò maliziosa con lo sguardo ed infine esclamò: “Ok, non so chi è Tatiana, ma certo che, vista così, è tutta Roberta”.By Augusto Monachesi

mercoledì 12 giugno 2013


È sabato primo giugno e sono le 10,30. Il calendario non ha dubbi: è primavera!
 
Il meteo, invece, i dubbi ce li ha, e come: il cielo è carico di nuvole, lagrimoso, l’aria umidiccia e fa quasi freddo. Insomma, una mattina ideale per crogiolarsi sotto le coperte.
 
Ma noi non demordiamo, e, un po’ alla spicciolata, la biblioteca “Rugantino” si anima di anime giunte per la presentazione del romanzo “I treni di Fernando”, organizzata dal “Circolo di lettura Rugantino” e dalla sua attivissima Presidente Livia De Pietro.
 
La biblioteca “Rugantino” è un accogliente parallelepipedo di un piano, immerso nel verde della periferia romana. Prima nell’atrio e poi nella sala, riconosco volti amici, i più, e qualche faccia nuova: evidentemente qualcuno ha ceduto davvero alla tentazione della coperta calda, ma anche le elezioni comunali, come spiega Livia, hanno fatto la loro parte.
 
Nonostante ciò la sala si compone, le persone prendono posto e l’ambiente si scalda. Si scalda di un calore che conosco, di quel calore che emana il Popolo che Legge, coloro che si alimentano di emozioni, che cercano il proprio sé nelle parole altrui, coloro che s’immergono tra le righe della pagina, suggendo e gustando parole che di lì a poco saranno carne della propria carne.
 
In questo abbraccio morbido, la relazione rigorosa e appassionata della professoressa De Pietro intende dimostrare la riconducibilità del romanzo alla corrente socio-ambientalista di stampo Naturalista. Risuonano i nomi di Zola, di Flaubert, che al solo sentirli nominare mettono i brividi. Ma anche questi si sciolgono nelle letture selezionate da Livia a supporto della propria tesi, e soprattutto si sciolgono nella voce di Cristina, splendida interprete dei brani.
 
Ecco che dalle letture vengono a comporsi davanti a noi immagini, quadri, sagome di personaggi; e di questi parliamo. Di Fernando bambino e dei suoi primi fremiti sessuali, del padre e delle tante figure che popolano il romanzo. “Tutti protagonisti e nessun protagonista”, afferma Livia, ed ha ragione, concordo, è un romanzo corale. “Personaggi reali o di fantasia?”, mi chiede, io rispondo citando la dedica del libro: “Questo romanzo è dedicato ai personaggi che lo popolano. […] Se, come in tanti mi anno detto, essi sono Veri allora, ovunque si trovino, a loro va tutto il mio affetto.
 
E poi, i luoghi, i cortili, la periferia e le periferie filmate dal racconto, con la grande ricchezza che queste custodiscono, ossia le diversità. Diversità come ricchezza, diversità speranza, diversità da lasciare germogliare e fruttare, per generare il Nuovo. E questo, conveniamo, è il cuore de “I treni di Fernando”, ove al fondo afferma che da ogni diversità negata e non accolta ha origine un dramma (tanto nel privato, quanto nel sociale).
 
Livia ci lascia, e mi lascia, con l’accorato appello a fare di più per la diffondere di romanzo: “un lavoro che l’aggettivo bello non esaurisce”, dice. Mi sprona a far sì che possa essere adottato nelle scuole, negli istituti superiori, con i molti spunti di riflessione che offre.
 
La primavera è vero, in questo strano 2013, tarda ad arrivare, ma stamane, qui, alla biblioteca “Rugantino”, una piccola rappresentanza del Popolo che Legge mi ha scaldato il cuore.
Augusto Monachesi

venerdì 5 aprile 2013

Il post di benvenuto del blog "L'INSETTICIDA"
http://insetticida.blogspot.it/
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GRILLO, NON COSTRINGERMI A PREMERE IL GRILLETTO!
Non sono un ecologista perché, in generale, non amo gli ismi, ma sto attento alla natura, rispetto ogni forma di vita, curo un orticello urbano con metodi biologici, cerco di contenere consumi, sprechi e inquinamento. Insomma, mi sforzo di fare quello che tutti noi dovremmo fare in quanto ospiti di questo splendido pianeta. Ma in questi giorni c'è un insetto che, a dispetto di tutti i miei più sani principi, sta armando la mia mano di un micidiale INSETTICIDA:
GRILLO, non costringermi a premere il grilletto!
Non ce l'ho con la specie, né, di principio, con lo specifico animaletto, né tantomeno con le altre specie cui si accompagna, ma con alcuni sui specifici comportamenti che non è possibile (e non voglio) tollerare. Perciò, prima di premere il grilletto voglio provare con la LOTTA BIOLOGICA.
Il Blog l'INSETTICIDA (nome volutamente provocatorio e contraddittorio) nasce proprio con questo scopo:
contribuire, con i metodi "naturali" e "nativi" della rete, a sviluppare le difese immunitarie per contrastare quei parassiti che, cavalcando parole d'ordine e previsioni sulle possibili nuove forme sociali (talvolta benemerite), in realtà non fanno altro che accrescere il proprio potere personale, esercitando dispotismo e arroganza.
Sviluppare e contribuire a questo Blog è importante per dare forza a quanto di buono c'è (a livello espresso o ancora potenziale) nei nuovi strumenti di partecipazione, di comunicazione e di socializzazione.
Per dimostrare che la rete sa scegliere, premiare e punire, quando necessario.
Che è finito il tempo dei despoti, di chi pretende di tappare la bocca agli altri (in virtù di...?) e che non ce n'è più per nessuno.
Siamo senz'altro ad una svolta, e quelli che vediamo ne sono solo i primi timidi vagiti. Ma la direzione di questa svolta dipende da TUTTI NOI. Se accettiamo che il nuovo "Capo" si imponga attraverso la rete, per fare quello che altri hanno fatto con la radio o, più di recente, con la TV, dipende solo da noi. A differenza di radio e TV, però, oggi abbiamo strumenti interattivi, orizzontali e potenti, dobbiamo imparare ad usarli anche per scegliere in politica (oltre che per il tablet o la vacanza). Dobbiamo imparare a usarli per usare anche quei personaggi che, di volta in volta, possono apportare un utile contributo ad una certa causa, ma che, non per questo, possono pretendere di elevarsi al di sopra degli altri.
Il mio obiettivo, non è eliminare questo animaletto, ma impedire che un solo Grillo diventi un'invasione di cavallette. Che Un Grillo torni ad essere Un Grillo e che nel prato possa tornare la bio/zoo-diversità.
POST-MESSA a questo post (forse superflua, ma necessaria) è l'assoluta separazione che pretendo venga sempre rispettata tra Grillo e il Movimento 5 Stelle.

sabato 30 marzo 2013


Un clandestino all'A. C. Milan

 

"Un conato di vomito mi scuote. Cerco la sponda di questa latrina malamente galleggiante per non aggiungere il mio schifo a quest’inferno di corpi, escrementi e lamenti. Ma la sponda è un miraggio inarrivabile, oltre il carnaio. Così ingoio veleno, l’ennesimo boccone da quando mi fingo Clandestino.

Dei giorni passati a maledire il mare di sabbia che separa Agades, in Niger, dalla costa libica, ho già scritto. Oggi, all’alba del 20 novembre, dopo due giorni di mare grosso, malediciamo questo deserto d’acqua.

Siamo circa in duecento su questo gozzo di ruggine e fetore. I più sono ragazzi, come il mio amico Kofi, ghanese di 16 anni, milanista, ma conto almeno trenta donne e sento il pianto dei bambini. Poi ci sono Loro, i trafficanti, che un attimo ti consolano, “l’Italia è lì”, dicono, e un istante dopo t’assestano un colpo se gli chiedi dell’acqua.

Kofi, come gli altri, sa che quando sbarcheremo (taccio il mio “se”) sarà più povero che al suo paese, ma è convito che allora avrà la Vita nelle sue mani, e per questo, e per giocare nel Milan, affronta la tortura di questo viaggio. Così anche gli altri. Così gli occhi di Kofi si accendono quando sente dire Italia, come quelli degli altri. E così anche i miei che sognano casa. Ma non quelli di Oliver, 21 anni, nigeriano, spenti da un poliziotto per pochi Franchi al confine tra Algeria e Libia.
Ma c’è ancora troppo mare tra questi disperati e la speranza, mentre i trafficanti si fanno sempre più nervosi. E quando un’onda scuote più forte lo scafo, prometto a Kofi, bianco di paura, un nuovo paio di scarpini."

Questo brevissimo testo è, in realtà, un'esercizitazione del corso di Linguaggi del Giornalismo, di Sienze della Comunicazione, in cui, in circa 1500 battute, era richiesto di "farsi" cronista e di restituire la sensazione di "essere dentro la situazione".
Ho voluto sfruttare l'occasione dell'esercizio per fare (per mia fortuna solo con la fantasia) uno di quei viaggi lì, sì, uno di quei tanti viaggi che tutti conosciamo. Si è trattato di un breve percorso, ma che mi ha toccato rimanendomi dentro. Perciò oggi, 30 marzo 2013, vigilia di Pasqua, con la cronaca che ci informa di altri 2 ragazzi (Kofi? Oliver?) rimasti vittime di questa giostra mortale, pubblico il mio piccolo scritto a mo' di preghiera per questo esercito di anime.

domenica 17 marzo 2013



Un “racconto d’oggi”: riflessione su una nuova narrazione

La “Globalizzazione dal basso”, un nuovo filone letterario?


Di cosa ci potrebbe parlare (e ci parla) la fiction al giorno d’oggi? Quale caratteristiche e finalità potrebbe avere (ed ha)? Esistono caratteristiche comuni alle nuove forme di narrazione? E se sì, quali sono?

La Professoressa Livia De Pietro, critica letteraria e personalità attiva in campo culturale e sociale, ritiene di sì. E, di fronte alla necessità di recensire talune opere (tra cui inserisce il mio racconto breve, “La badante”), parla di un nuovo filone letterario definendolo “Globalizzazione dal basso”. Un filone non ancora riconosciuto, ma vivo e attivo. Parto perciò dal suo spunto, nel quale riconosco un mio personale e deliberato intento narrativo, per formulare un’ipotesi complessiva che tenta di fornire una cornice di ambiente e di intenti a questa nuova (ma già ricca) tendenza narrativa. Ai lettori verificare e integrare con le proprie esperienze di scrittori e fruitori di fiction.

Marshall McLhuan
Alla fine si parte sempre da lui: MarshallMcLuhan. Con una celebre intuizione, il sociologo di “Galassia Gutenberg” e di “Villaggio globale”, afferma che l’emergere di una nuova tecnologia nello stesso campo dove precedentemente operava un altro medium, trasforma quest’ultimo in un’arte, in uno sport, in un hobby. Ossia, un nuovo medium non elimina il precedente, ma lo ingloba come suo contenuto.

Succede con l’avvento dell’automobile che trasforma il cavalcare da necessità di spostamento a un nobile sport; con la motorizzazione della navigazione che fa della vela un hobby, uno svago per turisti facoltosi; con l’affermarsi della fotografia che consente all’arte figurativa, al quadro, di sganciarsi dalla necessità della figurazione, quindi di esplorare nuove vie e di evolvere il linguaggio verso un’arte “pura” – dove sarà la fotografia, d’ora in poi, ad assumersi l’onere di documentare la realtà –; e così per il cinema, che farà del teatro il proprio contenuto, e per la tv, che farà lo stesso col cinema ecc., ecc..

Ma l'intuizione di McLuhan diventa perfino visionaria, e per questo ancor più affascinante, quando egli, evolvendo il concetto, afferma che lo Sputnik, lanciato nel ’57, “ha reso obsoleta la terra”. Ossia lo Sputnik, con le sue circa 1.400 orbite attorno alla terra, ci rivela l’esistenza di un nuovo supporto sul quale è possibile muoversi e comunicare. Non più, quindi, la sola superficie terrestre, bensì esso rivela la nascita di un nuovo medium, più evoluto e più esteso della terra stessa. Un nuovo medium che avvolge la terra, che la ingloba, che fa di essa il proprio contenuto.

Ecco perciò che, da quell’ottobre del ’57, tutti siamo costretti a guardare alla terra in modo diverso, a guardarla nel suo insieme, in modo globale, a costruirci un’immagine mentale che prima non esisteva (ancora fino a metà dell’900 la parola “terra”, per i più, era la terra da coltivare, oggi, invece, è più probabile che evochi l’immagine del Pianeta Azzurro immerso nel buio spaziale). La terra stessa, a questo punto, si trasforma in oggetto di interesse. Diviene oggetto di interesse globale per i politici, per le economie, ma anche per tutti gli abitanti del pianeta: non è una coincidenza che proprio nei primi anni ’60 nasce una nuova coscienza ambientalista, che si interroga e preoccupa delle sorti dell’intero pianeta, che da vita alle prime marce contro il nucleare e alle mobilitazioni per la pace. Può sfuggire, allora, alla sensibile antenna dell’arte e agli artisti, questo “nuovo” oggetto di interesse? E infatti non le sfugge. La terra, il “vecchio” medium per la trasmissione dell’informazione, ormai reso “obsoleto” perché avvolto come un cioccolatino Lindt dall’orbita dei satelliti di telecomunicazioni e delle reti informatiche, diventa un oggetto d’arte, o meglio, l’oggetto di una nuova arte.
(Foto di Yann Arthus-Bertrand)
È quella che un allievo di McLuhan, Derrickde Kerckhove, tenta di sistematizzare con una formula che chiama Global Art, e di cui rintraccia espressioni e contenuti: le espressioni, che fa risalire fino a Marinetti, con i primi ingenui, ai nostri occhi, tentativi di Comunication Art e che si esprimeranno più compiutamente a partire dagli anni ’60; i contenuti, che si rivolgono alla Terra come fonte d’ispirazione artistica e che ricercano l’emozione, la sensibilità globale, e una poesia del mondo (tra i tanti esempi citati da de Kerckhove, questo splendido film,  "Home", di Yann Arthus-Bertrand). Una nuova sensibilità ambientale e ambientalista, consapevole dell’unicità del mondo, del comune destino dell’uomo e di tutte le specie viventi.

Ma, affianco a questa possibile lettura dell’origine di un'arte globale e globalizzata, convive un altro aspetto che, benché apparentemente orientato in senso opposto a quanto finora detto, al contrario, rappresenta l'altra faccia della stessa medaglia. Si tratta di qualcosa che riporta il fenomeno della globalizzazione, così come la stratificazione culturale lo costruisce nell’immaginario collettivo, a una dimensione umana. Ossia, lo riporta alla dimensione dell’agire quotidiano, individuale e locale. Mi riferisco al fatto che qualsiasi fenomeno, di qualsiasi dimensione e portata, in ultimo e inevitabilmente, trova e deve trovare la sua concretizzazione nell’agire situato. Deve avvenire in un luogo fisico preciso, essere attuato da persone reali, da singoli individui in specifici contesti spazio-temporali. Insomma, il così detto fenomeno Glocale: globale più locale.

E’ in questo ambito, dal mio punto di vista, si inserisce il filone letterario della “Globalizzazione dal basso”. Un filone narrativo che inspira atmosfera globale ed espira fatti situati ed animati nelle vicende locali e individuali, cioè, che li traduce in “vita”.

Il perché tale filone debba interessarsi a ciò è quasi scontato, è il mondo in cui viviamo e raccontandocelo cerchiamo di capirlo, un mondo che si muove secondo queste due polarità:

·         da un lato, i fenomeni globali, che si manifestano sia negli aspetti più noti ed evidenti, come i flussi economici, migratori, informativi, planetari, sia in quelli più positivi, anche meno riconosciuti, come la capacità di emozione globale (prendiamo, ad esempio, le reazioni in tutto il mondo agli ultimi stupri avvenuti in India, o il ballo Onebillion rising, contro il femminicidio);

·         l’altra polarità è costituita dall’aspetto locale, poiché ogni fenomeno deve situarsi in luoghi fisici e incarnarsi in persone reali (tornando alle proteste contro gli stupri o al ballo planetario, è necessario che persone vere, singolarmente e con le loro storie uniche, scendano in piazza per protestare o per ballare, e che questo avvenga in strade precise e piazze vere, cambiando la fisionomia di quei luoghi).

Perciò, esattamente come avviene nella realtà, questo filone va correlando consapevolmente le due scale, globale e locale, e in ciò utilizzando la sensibilità globale di un’arte che ha per oggetto il Mondo, l’Individuo e l’Ambiente tutto (l’habitat, la “casa comune”).

Quali, invece, possono essere gli obiettivi e il senso di tale frequentazione e indagine? Io individuo (e personalmente perseguo), almeno tre finalità.


(Immagine presa dal sito TorriToday)
Una prima riguarda l’indagine dei cambiamenti. Nella dispiegazione narrativa, nella strutturazione dei personaggi, nel loro prender corpo, infatti, è possibile individuare e descrivere i cambiamenti che i fenomeni globali agiscono dentro le persone e nei luoghi. Cambiamenti profondi che avvengono nelle nostre teste: basta dire “badante” per evocare tutto un immaginario dettatoci dalla globalizzazione (una fisionomia, una lingua, una ragione politico-storica per cui…); così come “filippino” non è quasi più una nazionalità, ma un mestiere. Cambiamenti profondi, poi, nei luoghi: la Borgata Finocchio, citata nel mio racconto, è un luogo scelto, al tempo stesso, dai flussi globali e dalle persone reali. Da cui, indagare su come e in cosa si trasforma quello specifico posto. Scoprendolo un crogiuolo di umanità, un luogo di diversità: “dove essere diversi è l’unico modo per essere uguali”. E, perciò domandarsi se Finocchio è ancora una periferia di Roma o il centro del mondo (probabilmente l’uno e l’altro, con tanto di disagi di un posto “trafficato” e “plurale”, ma anche di qualche buona opportunità).

Una seconda finalità è quella di restituire dimensione “umana” a fenomeni altresì percepiti come troppo grandi, sovra-personali, spersonalizzanti e, quindi, annichilenti e deresponsabilizzanti. Riportare al vissuto “reale” e “concreto” dei personaggi (paradosso della fiction) le azioni che poi concorrono a generare i fenomeni globali, restituisce la responsabilità e l’onore dell’agire all’individuo. Come la responsabilità individuale di produrre atteggiamenti aperti e di accoglimento o di rifiuto e di razzismo. Oppure di sentirsi partecipi e incisivi, protagonisti, nella misura di Uno, dei cambiamenti.

Terza finalità è quella di ricercare, indagando dentro le vite, le storie, i sentimenti, dei fatti narrati, possibili chiavi di lettura alternative agli slogan e alle soluzioni troppo semplicistiche (le potenti armi della deresponsabilizzazione) che pretendono di spiegare fenomeni troppo complessi. Inverare il disagio, ovunque e in chiunque si produca, incarnarlo nelle persone, nelle emozioni e nelle motivazioni che muovono i fatti nelle narrazioni, dotarli di senso, sono tutti strumenti utili alla riflessione e alla conoscenza. Attraverso di essi è possibile fare percorsi di avvicinamento e produrre l’incontro fra diversi valori, visioni, culture.

Non si tratta, come in questi casi qualcuno usa obiettare, di ingenuo positivismo o di ignorare e nascondere i conflitti, i problemi, i rischi, potenziali e reali che scaturiscono dai fenomeni globali. Non è questo genere narrativo né rassicurante, né buonista, né tantomeno rinunciatario del conflitto e della denuncia. Tutt’altro, piuttosto vuole guardare dentro le cose (forse perfino con approccio Naturalista), con consapevolezza, curiosità, sensibilità. È l’intento di chi si interroga per comprendere e per crescere, affrontando i problemi (anche con sofferenza artistica) senza chiudere gli occhi di fronte ad essi. L’obiettivo di vuol provare a progettare e guidare i cambiamenti e non restarne vittima.

Insomma, per quel che mi riguarda il “racconto di oggi” esiste, ha una sua fisionomia, una sua consapevole identità e dignità morale. Ognuno di voi potrà ricercarla nelle sue letture, nel cinema, nella musica e nelle fertilissime arti visive (e magari riportare qui le proprie esperienze). Ai critici, invece, l’onere e l’onore di trovargli il nome che, come al solito, per quanto contestato, rifiutato, distinguizzato, sarà destinato ad accompagnarlo nella storia.

Augusto Monachesi

martedì 12 marzo 2013

"La badande", un racconto breve scritto per il concorso "Speciale Donna 2013"


La Badante

(racconto breve) 

“D’improvviso, la testa si riempie di un frastuono di vento...” Mi ricorda certi giorni sulla collina. In quei giorni di vento ci salivo apposta, lassù, a offrire l’adolescenza che mi mordeva in corpo ai primi cenni d’estate. Mentre il paesaggio, ingenuo, nascondeva le crepe dell’inizio della fine.

Crepe che svuotavano i negozi, svuotavano le pance, e poi… Poi tutto accadde di colpo. Sentivo di fatti che non capivo, mentre altre cose le vedevo coi miei occhi: balordi che sfrecciavano dentro Mercedes prepotenti, e la gente che partiva, quasi senza nostalgia.

«Pure lo storpio dei Zaniewski è partito. E tu, Irina? – mi sputava addosso mio padre - Ma chi ti piglia a te, brutta cagna».

«Non ascoltarlo, – ripeteva mia madre - con tutte le cose che abbiamo da fare».

E imparai a non sentire e a darmi da fare. Fui presto sola, però, con due vecchi da tirare avanti. Facevo, facevo e ripensavo al giorno che mi fu offerto un impiego a 400 chilometri da casa. Corsi alla collina, poi, colma di vento, tornai a casa a dare la notizia. Ma quel giorno ci si mise anche mia madre a seppellirmi con calci e pugni: «Bastarda! Vuoi abbandonarci!».

Non li abbandonai, ma alla fine furono i vecchi, prima mio padre e poi mia madre, ad abbandonare me. Rimasi sola. Cominciai a lavare, spazzare, spolverare, come impazzita. E così, con lo strofinaccio in mano, mi trovò Svetlana. Mi raccontò di Nina, sua sorella che stava in Italia, finì dicendo: «…e tu, Irina, che ci fai ancora qui!». Decisi di partire in quel momento, ma poi non ci pensai più. Finché Svetlana tornò, eccitata, agitando una lettera: «Parti, Irina, vai a Roma». Roma, vedevo già le sue bellezze, mentre Svetlana aggiungeva, storpiando: «…Bur-ga-da Finochio». Iniziai i preparativi.

Finito, mi meravigliai di quanto piccolo e leggero fosse il bagaglio. Rifeci la casa da cima a fondo, convinta di aver dimenticato chissà che. Ma no, la mia vita era proprio tutta in quelle poche cose. Ebbi una vertigine, che sciolsi dicendomi di non aver mai vissuto attraverso le cose. Quindi chiusi la valigia e salii sull’auto che mi portava al pullman. Mi voltai indietro e nel lunotto infangato che sfocava le luci del villaggio, lessi la domanda: sto fuggendo o cerco ciò che non ho più? Mi si strinse il petto.

Alla fermata del bus venne a prendermi Adele che appena mi vide domandò: «I bagagli?». Arrossii. Marta, invece, ci aspettava a casa, contraria alla decisione della sorella di prendere una badante. L’odio tra le due si palpava: occhiate taglienti, movimenti a scatto e sbuffi di fiato dalle narici dilatate. «Parli italiano? Capisci quello che dico?», gridava Marta. Io annuivo meccanicamente: «…e sai accudire una vecchia? Sai cucinare?», stretta nelle spalle, facevo cenno di sì, ma ero stordita da una tormenta di vento.

«Basta, Marta! – intervenne finalmente Adele - Vieni, Irina, ti presento Mamma.» La vecchia, seduta sul letto dentro una nuvola di cuscini, pareva scrutarmi l’anima. Si riebbe dalla fissità con un flebile rantolo: «E tu, chi si’?», «Irina», risposi tentennante. «Buttana! – tuonò quella, indemoniata – Vattenne, buttana!». Feci un balzo, mentre Marta usciva sentenziando: «Tanto non duri!»

Invece, durò. Con Mamma avevamo raggiunto un certo equilibrio e, in buona, mi chiamava come sua sorella. Anche Finocchio non era male. Era tutto insieme e tutto diverso: razze, mestieri, lingue, bisogni, facoltà. Lì, essere diversi era l’unico modo di essere uguali. E così mi unii a quelle diversità costruendo le mie abitudini.

Uscendo di casa salutavo Franco – stava scritto sulla sponda del suo camioncino sgangherato: “Sgombri e Trasporti, Franco” –. Non conoscevo quell’uomo, lo salutavo perché mi piaceva il suo giardinetto e lui rispondeva grugnendo qualcosa con voce di carta vetrata. In borgata avevo qualche amica, ma quando ero libera prendevo l’autobus e andavo in centro. Lì incontravo Nina e l’altra metà del mio Paese emigrata. Ma soprattutto trovavo il vento di Roma, che sferzava tra monumenti eterni, vortici di foglie, e dentro la mia testa.

Anche quel giorno avevo deciso di andare. Nonostante lo sciopero, nonostante la pioggia, alle 8,30, ero alla fermata del bus. Speravo in un crumiro e invece arrivò Franco col suo camioncino. Inchiodò per guardarmi il sedere, ma quando mi riconobbe disse: «Voi ‘no strappo?». Era la prima volta che lo sentivo parlare e allora capii che quel grugnito da cinghiale non era un lamento, ma la sua voce di carta vetrata. Salii.

«Ciao, io so’ Franco, come ti chiami?», «Irina», risposi. «Ah, Irina, Irina Cocimelova», rise rauco, e fece ridere anche me.

In seguito, in più di un’occasione, ripensai al perché, poi, decisi di andare a vivere con quell’uomo, ma non perché ne fossi pentita. La sera, anche se tardi, lasciare Mamma e tornare a casa mi dava la sensazione di staccare, ma non era la ragione. Franco, lui non m’illuse, né fece promesse. Mi chiamava Irina Cocimelova e aveva smesso di lavorare per non mancare più neanche una sbronza. Non lo scelsi per farci l’amore. Fare l’amore mi stancava, faticavo a cercare un affiatamento che non capivo. E con lui era perfino doloroso, come farsi un bagno nell’acido e asciugarsi con la carta vetrata. Ciò che invece ritrovavo in fondo a ogni ragionamento era il giardino. Assurdo. Quel minuscolo pezzo di terra, insignificante a tutti, che mi fioriva dentro e fuori, rigoglioso. Quello era il solo perché, ed era la prima volta vivevo in qualcosa che non fosse vento.

Ma quando stasera Franco è tornato, ubriaco come al solito, ero disperata. «Cai fatto?», grugnisce lui in una nuvola d’alcol. «Mama è morta.», rispondo a stento. Di colpo lo vedo sprofondare in un buio irragionevole: «Puttana schifosa …mo stai senza lavoro». Scatto in piedi, ma è solo un attimo perché una tormenta furiosa mi stordisce. Una ciocca bionda impastata a pece scura s’attacca al bordo del lavello e “…d’improvviso, la testa si riempie di un frastuono di vento. Dura poco, il tempo di un ricordo, questo, poi, neanche il vento, poi nulla più.”
Augusto Monachesi

http://www.associazionemarel.net/